Prima regola: focalizzarci sulle persone a cui ci rivolgiamo. Già, quando scriviamo, quando battiamo freneticamente sulle lettere della tastiera del nostro pc, spesso ci dimentichiamo di chi sta dall’altra parte.
Ci dimentichiamo che stiamo mandando un messaggio, ci dimentichiamo le parole giuste, quelle più adatte. A volte anche quelle davvero necessarie a renderlo comprensibile. Adatte a farlo arrivare a tutti.
Adatte, soprattutto a farlo diventare di tutti. Sì, perché se l’obiettivo è coinvolgere, comunicando, devo provare a rendere il mio messaggio universale. Ecco perché oggi, utilizzare un linguaggio inclusivo non è solo un vezzo stilistico, un modo per farsi battere le mani o conquistare le lodi di chi ama il politically correct. Si tratta di una necessità, di un vero segnale di uguaglianza.
Partiamo subito da un assunto: Scrivere in modo inclusivo, in italiano, non è per nulla facile, le sfaccettature del nostro idioma sono molte e complesse e non invitano certo l’argomento. La mancanza del neutro, rispetto ad altre lingue è sicuramente una base di partenza penalizzante. Ma con i giusti accorgimenti si può riuscire, in un grande calderone di parole, a tirar fuori quelle più precise.
La prima cosa da mettere da parte è la presunzione. La presunzione di conoscere troppo bene chi abbiamo di fronte. Non dobbiamo dare per scontato il genere del nostro interlocutore se non lo conosciamo e soprattutto, qualunque esso sia, dobbiamo cercare di rivolgerci a coloro che ci leggono nel modo più equo possibile.
Per chi fa marketing certi concetti sono importanti, oggi più di sempre. E allora proviamo a dare un po’ di suggerimenti a chi deve rivolgersi ad un gruppo non omogeneo di persone, magari con una newsletter oppure con un articolo di blog. O perché no, sta sviluppando un’applicazione, o deve creare dei contenuti di assistenza o magari copy per uno post sui social. Come può utilizzare al meglio il linguaggio inclusivo?
C’è un nome per ogni cosa
Uno degli aspetti più trattati nella “letteratura” del linguaggio inclusivo è sicuramente quello della declinazione dei nomi delle professioni. Una tematica molto dibattuta e nota anche a chi di professione non lavora con le parole.
In particolare, al centro dell’attenzione c’è la declinazione al femminile delle professioni. L’esigenza nasce nell’ultima decade, con l’ingresso di donne in posizioni che, fino a qualche anno fa, erano esclusivamente appannaggio degli uomini. Così sono nati termini come l’assessora, la capitana, la sindaca e via dicendo.
Declinazioni che a molti suonano strane ma che in realtà non lo sono. Non si tratta infatti di parole inventate, ma semplicemente di professioni che non sono mai state declinate al femminile perché descrivevano cariche che non erano accessibili alle donne.
Oggi, tra chi è favorevole e chi è contrario, tra incessanti dibattiti, il dilemma ha preso un’accezione più socioculturale e talvolta anche politica, più che linguistica. Ma per chi deve usare certi termini anche per lavoro è giusto utilizzare delle regole ben precise. Proprio in ambito professionale è bene ricordarsi che se il genere della persona di cui scriviamo è noto va usato il grammaticale corrispondente. Quindi dobbiamo concordare articoli, preposizioni, participi e così via ma anche cambiare il suffisso dei sostantivi. Le formule che abbiamo visto prima sono corrette. Le desinenze da seguire per declinare al femminile sono le classiche -a, -trice, -aia. E così, lo scrittore diventa scrittrice, il commissario, la commissaria, il presidente (in questo caso cambiando l’articolo) la presidente. Sempre meglio evitare il suffisso -essa che quasi sempre è associabile a toni dispregiativi.
Restiamo adesso nell’ambito in cui conosciamo il genere della persona di cui o con cui stiamo parlando. Quando ci riferiamo a un uomo e una donna in terza persona, occorre usare titoli o formule di cortesia in modo simmetrico. Sarebbe da evitare l’uso dell’articolo “la” prima dei cognomi di donne. Sempre nell’ambito del genere un’altra formula molto usata è quella dei termini signora e signorina, utilizzati a seconda se la donna è sposata oppure no, mentre l’uomo è sempre signore. Il vezzeggiativo, in questo caso, può essere eliminato. Questo è solo un esempio di una serie di parole stereotipate e di una serie di modi di dire che non sono più attuali nel nostro linguaggio comunicativo. Ad esempio il temine maschiaccio, per identificare una ragazza forte o il termine donnicciola per sottolineare la debolezza di un uomo. O la donna che porta i pantaloni ad indicare la parte più forte della coppia.
Il dilemma del neutro
Scrivere in modo inclusivo non è semplice ma nemmeno impossibile. Inoltre è importantissimo trovare il giusto compromesso tra l’inclusività e la comunicabilità. Tra il rispetto e il riuscire a trasmettere il significato che si vuol far passare. In questo senso, uno dei grandi dilemmi è quello dell’utilizzo del neutro. Sempre più spesso troviamo soluzioni nei quali si utilizzano desinenze formate da simboli come sbarre, parentesi, asterischi e chiocciole.
Vengono utilizzate formule come lui/lei”, “condomin(e)”, “interessat@” o tutt*. Formule non facili da comprendere: Il difficile è soprattutto capire come vanno lette e quali articoli o preposizioni associarci. In questo caso la leggibilità si riduce in modo sostanziale. Diciamo che queste formule sono sì utilizzabili ma non andrebbero considerate come prima scelta.
Una prima soluzione, nel caso il tempo a disposizione sia poco, può essere quella dell’utilizzo del maschile neutro in ogni caso, con una nota iniziale per specificare che i termini utilizzati al maschile fanno riferimento a tutti i generi. Ma sarebbe meglio, avere tempo a disposizione e provare ad andare più a fondo, realizzando un lavoro più curato.
Un’alternativa per rivolgerci a tutti, nel nostro scritto, è quella di utilizzare dei sostantivi neutri o collettivi. Ecco che i docenti possono trasformarsi nel “personale docente”, i dottori nel “personale medico”, i dirigenti in dirigenza. Una valido escamotage può essere quella di giocare con verbi e soggetti non usando il participio, cercando sinonimi dei verbi, usando delle perifrasi. Ecco che possiamo così dire “grazie per aver completato la registrazione alla newsletter anziché “grazie per esserti registrato alla newsletter”. Così facendo non identifichiamo nessun genere e riusciamo a farci capire ottimamente
In entrambe le costruzioni passive non è palese chi deve compiere o ha compiuto l’azione. Il soggetto può essere dedotto dal contesto senza rischio di fraintendimenti, usarle non è un problema.
Oltre ai sostantivi collettivi, ci possono venire in aiuto anche i pronomi indefiniti come chi, chiunque, coloro che da sostituire al sostantivo in questione: I candidati che devono prenotarsi diventano coloro che devono prenotarsi. In casi simili, bisogna utilizzare un termine collettivo neutro (se esiste) oppure espandere la categoria includendo per lo meno il genere femminile Facendo un esempio uomini e donne d’affari vs imprenditrici e imprenditori.
E se ci dobbiamo riferire a una coppia? La soluzione neutra nel caso non si debbano usare le diciture “marito” o “moglie” è sicuramente coniuge, che però si può utilizzare in solo caso di matrimonio. Al contrario, la parola partner ci permette di riferirci tanto a coppie sposate quanto a coppie di fatto oppure unioni civili ma anche a coppie dello stesso sesso. Anche se purtroppo può essere declinata tanto al maschile quanto al femminile. Può aiutarci comunque nei moduli o nelle risposte chiuse ai sondaggi, in cui magari possiamo evitare gli articoli e le preposizioni. In altri casi, può venirci in aiuto la stessa parola “coppia” o una perifrasi.
L’inclusive web
Questi piccoli accorgimenti che abbiamo provato a riassumere fin qui, sono i primi passi per provare ad utilizzare un linguaggio sempre più inclusivo che rispetti la parità di genere. Soprattutto nella lingua italiana scritta da utilizzare sul web.
Si perché parlando di digital, c’è un vocabolario web sicuramente da arricchire, per stare attenti con le parole chiave. Casi specifici in cui tenere gli occhi bene aperti. Prima ad esempio abbiamo parlato dell’utilizzo della parola “Partner”. Come possiamo tradurre questa parola, in italiano nel nostro sito web se non possiamo utilizzare questa formula. Possiamo utilizzare ad esempio un sostantivo di genere comune, come rappresentante o referente.
Quando si parla invece di cliente o utente, altre due parole che si possono declinare al maschile o al femminile, il maschile non è considerato marcato se ci riferiamo alla categoria in generale. Se però vogliamo fare un passo in più, possiamo aggirare articoli e preposizioni con le soluzioni che abbiamo visto fino ad ora. E così per dire che sono stati “1.000 i clienti ospitati per l’inaugurazione” possiamo dire che “Per l’inaugurazione abbiamo ospitato 1.000 clienti” in modo da eliminare quell’ “ospitati” che non è per nulla inclusivo.
Se si lavora nell’ambito della localizzazione invece, si dovrà spesso fare i conti con i cosiddetti segnaposto. Quando ci registriamo ad un portale o a un’app, di norma dobbiamo fornire informazioni quali nome e cognome o nickname, indirizzo email. Il nome viene usato in messaggi e notifiche, che possono contenere elementi declinabili tanto al maschile quanto al femminile e possono farci cadere in equivoco. Nel gestire i segnaposto, dobbiamo fare attenzione ai possibili problemi di concordanza di genere.
È raro che ci venga chiesto di specificare il nostro genere, anche perché creare una libreria di stringhe al maschile e una al femminile richiede un enorme impiego di risorse: significa raddoppiare spazio per l’ archiviazione, capacità di elaborazione e il lavoro necessario per eventuali aggiornamenti. Una serie di rogne che persino le aziende tecnologiche più grandi preferiscono risparmiarsi o anche solo ridurre al minimo. Facebook ad esempio offre tre opzioni per il genere al momento della registrazione, ma nei contenuti online utilizza anche soluzioni di comodo come la barra obliqua.
Molti dopo aver letto queste info si chiederanno: perché adattarsi al linguaggio inclusivo nel marketing digitale.
I motivi sono numerosi. In primis eliminare inutili stereotipi o pregiudizi e poi connettersi con un pubblico consapevole. Un brand che parla a tutti è un brand che riesce a coinvolgere, ad unire. Si tratta di un brand che riesce a rafforzare la sua identità, con valori e mission definiti. Un brand che si occupa e si preoccupa di non discriminare il suo pubblico. Connettendo il brand ad un pubblico più consapevole. Solo così un messaggio può diventare davvero universale. Un messaggio per tutti. Nessuno escluso.
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